Milano, 13 GIUGNO 2013 – 9:29
Intrecci diabolici tra un “gigante” (Spatuzza) e un “nano” (Lo Giudice)

Il primo ha scandito una data: 2006. Il secondo ha raccontato la sua verità  sulla cattura. Al centro dei discorsi sempre lui:Bernardo Provenzano, che terminò la sua latitanza proprio nel 2006. Giorno e mese: 11 aprile.

Protagonisti, poche settimane fa, da una parte del tavolo, due magistrati e dall’altra quattro loro colleghi: Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, gli stessi che il 27 maggio hanno iniziato a Palermo il processo sulla trattativa tra Stato e mafia.

Questi due interrogatori “ i primi di una serie “ fanno parte di una costola di quel procedimento. In questo caso si tratta di un fascicolo contro ignoti, nel quale viene dunque già  ipotizzato un reato (o più), sulle modalità  con le quali Binnu u tratturi venne arrestato. Ad arricchire il fascicolo numerosi articoli (tra i quali quelli di chi scrive) e, a quanto risulta al Sole-24 Ore, un lungo servizio di Sky mai andato in onda con interviste e fuori onda dirompenti di magistrati e investigatori proprio sulla cattura del boss mafioso. Quel servizio sarebbe stato già  acquisito dalla Procura di Palermo.

IL FASCICOLO DE FRANCISCI

Esattamente 13 mesi fa, nel maggio 2012, già  l’allora procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo Ignazio De Francisci aprì un fascicolo modello 45 sulla cattura di Provenzano vale a dire (tecnicamente) l’iscrizione effettuata nel registro degli atti che non costituiscono reato. Quindi “ ab origine “ nessun reato fu intravisto nelle condotte descritte da alcune indagini giornalistiche sulla presunta trattativa per la cattura del boss di Cosa nostra.

De Francisci convocò a sé alcuni protagonisti della presunta trattativa, tra i quali i pm Alberto Cisterna, Vincenzo Macrì e un secondo mediatore presentatosi a nome di Provenzano. I mediatori che si presentarono allo Stato erano infatti due: il secondo “ adducendo l’impossibilità  di sostenere le spese di viaggio per l’interrogatorio a Roma “ a maggio dello scorso anno non fu ascoltato e la patata bollente passò al pm Francesca Mazzocca quando De Francisci, il 1° ottobre 2012, volò in Procura generale. Il secondo mediatore in realtà  ben poco avrà  potuto aggiungere a quanto dichiarato “ anche davanti a De Francisci “ dal mediatore principale della presunta trattativa. Mediatore che avrebbe ricordato ancora una volta di essere stato mandato da un terzo soggetto (mai comparso sulla scena) di cui mai e poi mai avrebbe fatto e farà  il nome. Non lo fece neppure quando l’allora capo della Procura nazionale antimafia Piero LuigiVigna lo prese da parte in un corridoio della Dna per farselo dire: niente da fare.

DUE MAGISTRATI DAVANTI AI PM

Il nome del primo magistrato ad essere interrogato dai quattro pm di Palermo è top secret e al momento l’unica cosa che il Sole-24 Ore è in grado di dire è che ha indicato il 2006 come data nella quale si concluse la trattativa tra Stato e Cosa nostra. In quell’anno, dunque, secondo il magistrato audito, cessarono gli effetti di quel presunto accordo sul quale sta indagando la Procura di Palermo. Dopo la cattura di quel garante potrebbe esserci stato un nuovo ipotetico accordo che vedrebbe un altro garante dei patti inconfessabili tra parti deviate dello Stato e Cosa nostra: Matteo Messina Denaro che, potrebbe dunque non essere un caso, è ancora latitante e sulla cui mancata cattura è intervenuto pesantemente il maresciallo Saverio Masi.

Masi, che nel processo palermitano sulla trattativa è stato chiamato a riferire in ordine «agli ostacoli incontrati nell’ambito della sua attività  investigativa finalizzata alla cattura di Bernardo Provenzano nonché a quanto a sua conoscenza sul ritrovamento, e sul mancato sequestro, del cosiddetto “papello” nel corso di una perquisizione domiciliare nei confronti diMassimo Ciancimino nel febbraio del 2005», caposcorta di Nino Di Matteo, è lo stesso che il 3 maggio ha presentato un lungo esposto alla Procura di Palermo, denunciando, questa volta, le pressioni ricevute dai superiori per non catturare il boss Matteo Messina Denaro, dal quale era giunto ad un soffio.

Oltre a Masi il luogotenente Salvatore Fiducia, ha depositato anch’esso in Procura, secondo la ricostruzione che ne fa l’Ansa il 14 maggio, un esposto circostanziato agli episodi avvenuti tra il 2001 e il 2004 quando, a un passo dalla cattura di Provenzano, avrebbe ricevuto inspiegabili ordini di non proseguire le indagini. Ordini che il luogotenente si sarebbe sentito ripetere nel 2011, quando era impegnato nella ricerca del covo del boss trapaneseMessina Denaro, tuttora latitante.

L’avvocato Giorgio Carta, uno dei due legali con Francesco Desideri, ha spiegato in conferenza stampa come «prima Masipoi Fiducia, nelle loro indagini, individuano dei casolari dove sarebbero presenti i latitanti, ma anziché essere incoraggiati e dotati di strumenti tecnici, uomini e mezzi, viene ordinato loro di interrompere tutto, o di coordinarsi con il Ros» rischiando di non avere più la gestione delle indagini e perdendole di vista.
Secondo quanto riferito dagli stessi avvocati in quella conferenza stampa, ci sarebbe un terzo Carabiniere pronto a parlare con i magistrati e un quarto che potrebbe farlo.

Questo al netto della novità  di ieri. Il Csm muove infatti al capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo, vari rimproveri tra i quali quello di aver fatto sfumare la cattura di Messina Denaro per un suo «difetto di coordinamento all’interno dell’ufficio della procura». Lo scrive il Csm nell’atto di incolpazione, citando l’accusa del pm Leonardo Agueci. Non solo. A Messineo vengono contestati i suoi rapporti privilegiati con l’ex procuratore aggiuntoAntonio Ingroia dal quale sarebbe stato «condizionato nella gestione dell’ufficio» tanto da creare un clima pesante tra i colleghi soprattutto riguardo al processo sulla trattativa e sulla gestione del testimone Massimo Ciancimino.

IL SECONDO SERVITORE DELLO STATO

Del secondo magistrato che si è seduto per circa tre ore di fronte ai 4 pm di Palermo si sa che è lo stesso Alberto Cisterna, ora a Tivoli in attesa di sapere cosa ne sarà  dei suoi ricorsi contro l’allontanamento dalla Dna.

Cisterna il 5 giugno, davanti a Di Matteo, Teresi e agli altri due colleghi ha ribadito e spiegato meglio, punto per punto, i fatti del giugno e dell’agosto 2011 ed il loro prologo addirittura dell’aprile del 2011 (ben prima che Lo Giudice consumati i 180 giorni per i fatti indimenticabili ricordasse di accusarlo: l’iscrizione è del 23 maggio 2011, una data drammaticamente evocativa).

Il 17 giugno 2011 c’è il primo interrogatorio in Dna a Roma nei confronti di Cisterna, indagato per corruzione in atti giudiziari. A condurlo furono Giuseppe Pignatone, allora capo della Procura di Reggio Calabria e il sostituto Beatrice Ronchi, ora a Bologna ma applicata a Reggio fino a fine 2013.

Una parte dell’interrogatorio origina da una lunga e durissima lettera che Cisterna manda ad un sito calabrese in merito alla superficialità , a suo dire, con la quale era stata trattata la notizia della cattura del superboss di ˜ndrangheta Pasquale Condello e vicende successive, legate alla fulminazione sulla via di Damasco del pentito Nino Lo Giudice.

L’INTERROGATORIO

Ronchi fa dunque riferimento “ nel corso dell’interrogatorio “ alla parte finale di questa lettera di Cisterna.

Ecco quella parte di interrogatorio.

Ronchi: doveri, queste sono le sue parole, “doveri istituzionali che prescindono interamente dalla mia persona e dalla mia disponibilità  mi hanno imposto e mi impongono l’assoluto silenzio sul punto per come imposto dalle norme di legge. Ho più volte detto che si tratta di una questione delicata che non può essere trattata in modo spregiudicato e avventuristico poiché coinvolge la vita di colleghi e di altre persone e vede in discussione interessi superiori della Repubblica”. Chiuse le virgolette.

Cisternaperfetto! Testuale.

Pignatone: oh! Siccome questo sembra adombrare come dire i segreti d’ufficio, di Stato, ovviamente volevo preliminare questo, che volesse chiarire questo discorso ¦

Cisternanon c’è dubbio Procuratore. Io il segreto d’ufficio su questa cosa lo oppongo formalmente, nel senso che sono ben conscio delle regole che qui non ci stiamo a ripetere reciprocamente perché so quali sono le 201¦

Pignatone: facciamo tutti questo mestiere.

Cisterna¦Facciamo tutti questo mestiere. Io lo ho anche sottolineato in altre occasioni, che rispetto a questa questione, io ritengo, che è una questione che si inserisce in un discorso più complessivo; io ritengo di dover opporre il segreto d’ufficio consapevole del fatto che naturalmente il segreto d’ufficio presente il 201 riguarda il testimone e che non riguarda l’indagato; consapevole di tutta, oggi indagato, consapevole di tutta la giurisprudenza sul punto del conflitto tra segreto di Stato e facoltà  di rispondere e così via, e fermo restando che se lei ritiene che la questione debba essere affrontata come dice il 201 io l’affronto direttamente quindi rimetto, come dice il codice, alla sua valutazione comunque la esplorazione della narrazione, io non ho, io devo soltanto come dovere di ufficio opporlo poi se lei ritiene ¦

Pignatone: non so neanche qual è il punto del problema quindi figuriamoci!

Cisternama il punto mi sembra abbastanza evidente.

Pignatone: la cattura di Condello!

Cisternal’attività , non soltanto la cattura di Condello, ma come credo sappia la cattura, le attività  inerenti la cattura di Provenzano, e le attività  consequenziali, diciamo accessorie, che hanno riguardato la cattura di Pasquale Condello e la possibilità  eventualmente, ma solo ipotetica, di catturare Giuseppe Morabito inteso il tiradritto. Quindi che erano i tre episodi in discussione in quel frangente e che hanno comportato una serie di contatti istituzionali a cui ho partecipato in qualità  di titolare dell’ufficio di Procura nazionale, sostituto ovviamente.

Pignatone: ammesso che io non so a cosa allude questo riferimento a Provenzano.

Cisternavedremo! (il punto esclamativo è nell’originale, immaginate il tono, ndr)

Pignatone: no, non so a che cosa allude.

Cisternava bene, io sto, prendo atto Procuratore.

IL RADDOPPIO DAVANTI A DI LANDRO

Dopo questo sfogo Cisterna, la cui carriera lanciata verso la Procura di Reggio o addirittura come erede di Grasso in Dna viene irrimediabilmente stroncata, aveva scritto un lungo esposto i quattro pm di Palermo gli hanno chiesto conto.

Il 13 agosto 2011, infatti, Cisterna, attraverso i suoi legali, scrisse un esposto denuncia di 39 pagine con il quale chiese al pg di Reggio Calabria Salvatore Di Landro l’avocazione dell’indagine sul suo conto. La richiesta non verrà  accolta ma resta quella incredibile denuncia contenuta alle pagine 22 e 23: «Attendo ancora per rimettere alla S.V. (e altrove) tutte le innumerevoli, drammatiche vicende che hanno contrassegnato la vicenda processuale che mi vede ingiusto protagonista e vittima preordinata. Ad esempio verrà  il tempo di discutere delle vicende che dal 2003 al 2005 hanno riguardato l’intento di Bernardo Provenzano di consegnarsi alla giustizia (questione che chiama in causa la posizione di ben tra dei protagonisti delle vicende giudiziarie reggine: il dr. Pignatone, il dr.Prestipino e il dr.Cortese, tutti epigoni della cattura del detto latitante nel 2006); questione che, non a caso ritengo, ha segnato l’incipit del mio interrogatorio da parte del dr.Pignatone il 17 giugno 2011…o di scandagliare le ragioni per cui lo scrivente ed il dr.Vincenzo Macrì sono stati sollevati, dal 16 settembre 2009 dalle funzioni di collegamento investigativo con il distretto reggino».

Cisterna disse dunque, in più occasioni e non solo in quelle qui ricordate, che sarebbe venuto il momento di parlare della cattura diProvenzano e di altri latitanti eccellenti di mafia. Quel momento è venuto e, tra le prime cose che gli sono state chieste dai quattro pm di Palermo, c’è proprio la sua conoscenza (o meno) del cluster di servizi di Sky nel quale, pure lui, rese un’intervista.

LE PAROLE DI GRASSO

La presunta trattativa sulla cattura di Provenzano fu spontaneamente accennata (e negata) da Piero Grasso, che diVigna prese il posto, nel corso dell’audizione al Csm dell’11 dicembre 2011, che stava discutendo della situazione di Alberto Cisterna, suo braccio destro in Dna e in quel momento accusato di corruzione in atti giudiziari sulla scorta delle dichiarazioni del pentito calabrese Nino Lo Giudice. Accuse non solo cadute successivamente (archiviazione chiesta dalla stessa Procura di Reggio Calabria) ma che ora assumono una veste ancora più inquietante visto che Lo Giudice con un doppio clamoroso colpo di scena, la scorsa settimana non solo è evaso dalla località  segreta dove stava scontando una condanna ai domiciliari ma ha ritrattato tutto quanto aveva detto ai pm reggini, proprio a partire dalle dichiarazioni rese su Cisterna.

E cosa disse Grasso nell’audizione al Csm? Quanto segue: «¦ mi si prospettò, da parte della Guardia di Finanza questo signore che diceva addirittura di avere dei contatti con il latitanteProvenzano, il quale si doveva trovare in località  naturalmente non precisata ma comunque nel Lazio. Ricordo che siccome precedentemente, quando ero procuratore a Palermo, avevamo fatto un’indagine sulla presenza di Provenzano a Marsiglia: eravamo riusciti a ottenere un frammento di un reperto medico/sanitario relativo alla sua operazione a una spalla e alla prostata, che ci aveva consentito di trarne il Dna. Insomma, non potendo catturare tutto il latitante ne avevamo catturato un pezzetto, però era utile per evitare che potessero magari far trovare un corpo spacciandolo per il latitante, perché già  si parlava che era morto. Quindi essendo in possesso di quel reperto, a colui che diceva di essere in contatto con il latitanteProvenzano, dissi di farci avere qualcosa – un fazzoletto, un bicchiere, un qualcosa “ per poter confrontare il Dna prima di procedere a qualsiasi ulteriore passo verso quelle che erano le richieste. Perché veniva quasi come un “messaggero” diProvenzano. Insomma qualcosa che non convinceva. Fra l’altro io conoscevo le indagini, perché avevo appena lasciato il territorio di Palermo e non c’era assolutamente nessuna possibilità  di qualche collegamento. Quindi a me sembrava più un truffatore che altro. Infatti feci questo colloquio investigativo ma poi nel tempo scoprii che altri due in precedenza erano stati fatti da Vigna e dai sostituti Cisterna e Macrì».

VINCENZO MACRI’

L’”informatore-messaggero” laziale, per Grasso è un truffatore ma per Enzo Macrì, ora Procuratore generale ad Ancona, era invece affidabile. E sì perché Macrì si chiese e si chiede ancora perché un bel giorno un pazzo bussò alle porte della Dna per cercare di fregare “ al tempo stesso “ Provenzano e lo Stato, dal quale pretendeva tra i due i quattro milioni e con quali speranze di riuscirci visto che i soldi li avrebbe ricevuti solo a consegna avvenuta.

LA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA.

Di fronte al clamore suscitato dalle inchieste giornalistiche che fecero seguito alle dichiarazioni di Cisterna e Macrì, l’allora parlamentare del Fli Angela Napoli scrisse all’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu. Il 26 aprile 2012 Napoli diffuse il seguente comunicato stampa: «Alla luce delle notizie relative alla cattura di Bernardo Provenzano…ho inviato una richiesta scritta al senatoreGiuseppe Pisanu, Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia. La richiesta, che sicuramente verrà  esaminata nel prossimo Ufficio di Presidenza della Commissione, tende a far diventare oggetto di indagine il “mistero” celato dietro la cattura del noto boss di Cosa Nostra. Mi sembra, infatti, necessario che le vicende legate alla cattura di Bernardo Provenzano, debbano essere inserite nell’inchiesta relativa alle “stragi del ˜92” , in atto parte integrante del lavoro della Commissione Parlamentare¦».

Dopo questa presa di posizione intervennero anche altri membri della Commissione parlamentare antimafia ma non se ne fece nulla e va ricordato, a solo titolo di contestualizzazione storica, chePisanu era ministro dell’Interno quando venne arrestatoProvenzano.Vale la pena sottolineare anche che già  a maggio 2010, nel corso di un’udienza del cosiddetto “processo Mori”, quello chiusosi due settimane con le richieste di condanna avanzata dal pm Nino Di Matteo, l’ex legale di Massimo CianciminoRoberto Mangano, aveva sollevato dubbi e interrogativi sull’improvvisa partenza (verso Sharm el Sheik) proprio di Ciancimino in occasione di un “fatto eclatante”. Sarà  stato proprio la cattura di Provenzano?

LA DIRETTIVA VIGNA

Ma c’è un altro giallo da chiarire e del quale probabilmente è stato chiesto conto a Cisterna, quello della direttiva ai comandi di polizia “ scritta da Vigna per sua esplicita ammissione e che, se non fosse morto, avrebbe dovuto essere audito anche su questo punto dal pm De Francisci “ sulle Procure da avvisare e coinvolgere in caso di arresto di Provenzano. Questa direttiva è stata per certo chiesta dalla Procura di Palermo ma non è mai arrivata dalla Dna e, a quanto dichiarò lo scorso anno, a chi scrive, De Francisci,Grasso si oppose, sicuramente avendone diritto, alla spedizione. Se davvero così fosse sarebbe in vero uno strano caso di collaborazione tra procure antimafia. Certo sarebbe interessante sapere cosa diceva questa direttiva e sapere l’ordine gerarchico di allerta: quali Procure? Solo Palermo o anche Roma e Viterbo?

C’è da giurare che i quattro pm di Palermo saranno tornati alla carica per avere quella direttiva. Questa volta l’avranno ottenuta? Perché la sensazione è che rappresenterebbe un punto di svolta.

LA MORTE DI ATTILIO MANCA.

Vale infine la pena sottolineare che forse la latitanza diProvenzano si lega anche alla scomparsa dell’urologo Attilio Manca, morto in circostanze misteriose tra l’11 e il 12 febbraio 2004 a Viterbo, presso il cui ospedale lavorava. Originario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, nel 2003 viaggia nel sud della Francia, per assistere a un intervento chirurgico, come disse lui stesso ai genitori. Nel 2005 nell’inchiesta che porta alla maxi operazione antimafia denominata Grande Mandamento emerge che Bernardo Provenzano è stato a Marsiglia: una prima volta dal 7 al 10 luglio 2003 per sottoporsi a radiografie e ad esami di laboratorio e in un secondo momento proprio nel mese di ottobre dello stesso anno per subire l’operazione alla prostata. Guarda tu che coincidenza: l’urologoManca e il boss Provenzano sono “ nello stesso periodo “ in Francia. E, guarda tu che altra coincidenza, il secondo è il malato e il primo è il chirurgo (bravo, esperto, affidabile, siciliano) che può alleviargli le pene.

Manca potrebbe essere stato l’urologo che operò (costretto verrebbe da pensare) Provenzano appunto in Francia una prima volta per essere poi assistito non a Viterbo ma forse in una clinica a Roma, anche alla luce dei contatti medico-massonico di Provenzano nella sanità  laziale ai più alti livelli. Altissimi. Irraggiungibili ai comuni mortali.

Il 10 luglio 2012, in un evento pubblico, l’allora procuratore capo della Dna e oggi presidente del Senato, Piero Grasso, aveva ancora una volta tagliato la testa a due ipotesi in una: non si è mai riscontrata alcuna presenza certa della latitanza di Bernardo Provenzano nel Lazio e mai trattativa tra Stato e Cosa nostra ci fu per la sua cattura: «Non c’è nessuno elemento che ci porta a ritenere che il boss abbia soggiornato nel Lazio. Certi giornalisti si fanno affascinare dalle ipotesi. I magistrati non hanno assolutamente trattato». Il Lazio non è una regione citata a caso, perché in sede di dichiarazioni davanti a De Francisci oltre un anno fa, proprio da alcuni pm, fu ricordato la strano caso dell’omicidio-suicidio di Manca. Fascinazione dei giornalisti, dunque, zero.

IRROMPE NUOVAMENTE PALERMO.

Ce n’è abbastanza evidentemente per la Procura di Palermo che a sorpresa ma fino a un certo punto, riapre il capitolo della cattura o forse della resa di Provenzano sull’onda di quanto iniziato un anno fa e terminato in un vicolo apparentemente cieco.

Teresi, Di Matteo, Tartaglia Del Bene hanno del resto elementi nuovi ogni giorno che incastrano proprio perché la materia della trattativa tra Stato e mafia si plasma di giorno in giorno. E ultimamente la stessa Procura di Reggio Calabria “anche sulla scia di informative della Dia di Reggio e di Palermo che risalgono a 20 anni fa sul ruolo della ˜ndrangheta nella strategia stragista di Cosa nostra “ sta dando una mano a Palermo con un filone apposito che fa seguito all’operazione Breakfast.

Sebbene la ˜ndrangheta non abbia mai appoggiato la strategia stragista di Cosa nostra, era ben disposta ad appoggiare piani che vedessero nella secessione o nel federalismo spinto gli obiettivi da raggiungere. Del resto a corroborare queste ipotesi intervennero anche i due collaboratori di giustizia calabresi Filippo Barreca ePasquale Nucera, le cui dichiarazioni confluirono nel processo sui “sistemi criminali” della Procura di Palermo, avviato nel 1998 e archiviato, su stessa richiesta della Procura palermitana, nel 2001.

Barreca, il 12 settembre 1996, nel corso di un interrogatorio, affermò che la regia di tale disegno era da ricercarsi a Milano dove era avvenuto un incontro tra i clan calabresi facenti capo aiPapalia ed esponenti di Cosa Nostra siciliana. Il tutto, ovviamente, con la benedizione della massoneria deviata.

Anche il collaboratore calabrese Pasquale Nucera ha riferito di un “piano politico criminale” elaborato dalla criminalità  organizzata nel 1991. In particolare, ha dichiarato che il 28 settembre 1991, in occasione della riunione annuale della ˜ndrangheta che si tiene presso il santuario di Polsi, alla quale era presente come rappresentante della famiglia Iamonte, avevano partecipato, oltre ai vari capi della ˜ndrangheta, anche alcuni rappresentanti di famiglie napoletane, esponenti mafiosi calabresi provenienti da varie parti del mondo (Canada, Australia, Francia), tale Rocco Zito, in rappresentanza di “Cosa nostra” americana e un personaggio di Milano, definito come “un colletto bianco” legato alla mafia siciliana e calabrese. Quest’ultimo, in particolare, dopo aver affermato che in Italia ci sarebbero stati degli “sconvolgimenti”(non meglio specificati), aveva rappresentato la necessità  di una «pacificazione fra le cosche calabresi, perché i siciliani delle famiglie americane ci tenevano molto per poter meglio realizzare un progetto politico, consistente nella costituzione di un movimento politico di Cosa nostra definito partito degli amici».

Ma v’è di più. La strategia della ˜ndrangheta era esattamente contraria alla condivisione delle ipotesi stragiste: solo così la coscaDe Stefano avrebbe potuto spostare per anni e anni i riflettori dello Stato su Cosa nostra e trovarsi autostrade spalancate verso la politica e il nord del Paese (dove il secessionismo/federalismo dellaLega Nord era un dogma e dove, guarda caso, 20 anni dopo circa cominciano a profilarsi ipotesi di commistioni tra tesorerie di partiti e strani afflussi di denaro da non meglio specificati investitori).

SPATUZZA E I CARABINIERI UCCISI A SCILLA

A questo punto “ non mancando gli intrecci a distanza Palermo chiama e Reggio risponde. Ma se Palermo chiama interrogandoCisterna (di cui è verosimile ipotizzare che è parte lesa negli accadimenti susseguitisi in questi anni), la Calabria (ma non la Procura di Reggio) sembra fatta apposta per mischiare le carte e portare fuori strada. E questo lo sanno tanto i pm di Palermo e di Caltanissetta quanto quelli della Dda di Reggio.

Palermo e Calatanissetta infatti stanno cercando di vederci chiaro in una dichiarazione che il pentito siciliano dal 2008 (per moltissimi versi attendibile e tale ritenuto dalla Procura di Palermo) Gaspare Spatuzza (ri)disse in un’udienza il 5 ottobre 2012 in aula nel corso del cosiddetto processo-Mori, parlando del fallito attentato ai Carabinieri allo stadio Olimpico di Roma e del suo rapporto col boss Giuseppe Graviano. Irruppe così sulla scena facendo riferimento, attenzione, a un incontro tra i due nel gennaio 1994 quando, si badi ancora meglio, le stragi del 92/93 erano drammaticamente alle spalle: «Graviano mi disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie alla serietà  di certe persone come Berlusconi e Dell’Utri». Sempre in quell’occasione “ e non prima, ergo a gennaio 1994 e non prima, nonostante Spatuzza fosse un suo fedelissimo – Graviano disse che nonostante «avessero chiuso il discorso, serviva il colpo di grazia» che doveva essere l’attentato ai Carabinieri allo stadio Olimpico, poi fallito. «I calabresi già  si sono mossi» avrebbe detto il capomafia a Spatuzza alludendo all’uccisione di due carabinieri in Calabria.

Già  nel giugno 2009 Rosario Spatuzza fu citato a comparire innanzi alla Corte d’appello di Reggio Calabria, presieduta daBruno Finocchiaro, in qualità  di testimone nel processo per gli attentati ai carabinieri avvenuti a Reggio Calabria ed in provincia tra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994. Ricordiamo che l’ultimo episodio riconducibili alla strategia stragista di Cosa nostra fu il mancato attentato all’Olimpico contro i Carabinieri del 31 ottobre.

Negli attentati di Reggio persero la vita gli appuntati Antonino FavaVincenzo Garofalo, massacrati a bordo dell’autovettura di servizio, in autostrada, il 18 gennaio 1994 all’altezza dello svincolo di Scilla. Il collaboratore era stato citato su iniziativa degli avvocatiLorenzo Gatto e Michele Priolo, difensori di Consolato Villanicondannato in primo a grado a 30 anni, a seguito delle dichiarazioni rese dall’ex pentito Giuseppe Calabrò. E cosa disseSpatuzza a Reggio Calabria nel 2009? Le stesse identiche cose che dirà  tre anni dopo a Palermo sull’attentato fallito ai danni dei carabinieri di Roma: «Sono intervenuto “ disse  “ su Giuseppe Graviano per cercare di farlo desistere. Lui aveva replicato che già  in Calabria si era iniziato a colpire i Carabinieri».

Spatuzza, dopo, ribadì l’ovvio: l’esistenza di rapporti tra mafia e ˜ndrangheta.

Come ha riportato il collega Consolato Minniti su Calabria Oral’11 maggio 2013, a poche ore dall’omicidio dei due militari, arrivò all’hotel Palace di Reggio Calabria (dove all’epoca aveva sede il Comando intermedio di rappresentanza dei carabinieri), una telefonata anonima che disse testualmente: «Questo non è che l’inizio di una strategia del terrore». Millanteria? Spacconata? A occhio e croce sembrerebbe di sì.

Scrive ancora Minniti: «Del delitto si accusarono Consolato Villani (solo recentemente) e Giuseppe Calabrò. Quest’ultimo all’inizio collaborò, salvo poi ritrattare ed autoaccusarsi senza tirare in ballo nessun altro. Per questo entrambi stanno pagando il conto con la giustizia. E forse proprio in virtù di tale complesso groviglio di storie e protagonisti, il ritrovamento della Smart diFrancesco Calabrò, fratello di Giuseppe, al porto di Reggio Calabria a distanza di anni dalla sua scomparsa, ha fatto scattare il procuratore aggiunto della Dda reggina Michele Prestipino precipitatosi sul posto.

Lui, che conosce tutto di questa storia, ha voluto sincerarsi che non vi fossero sorprese di sorta, nonostante i familiari abbiano a più riprese rimarcato che nessun collegamento si possa fare tra i due episodi. àˆ pur vero che questa vicenda appare ben lungi dall’essere chiusa. E sulla scrivania del pm Giuseppe Lombardogiace un fascicolo che potrebbe riservare risvolti clamorosi».

Certo è curioso che solo il 23 aprile di quest’anno, a 12 metri di profondità , sul fondale antistante la banchina del mercato ittico di Reggio, venga trovata l’auto con i resti di Francesco Calabrò, scomparso il 9 ottobre 2006.

SULLA SCENA I BOMBAROLI DI REGGIO.

La morte dei due Carabinieri a Reggio, le dichiarazioni riportate daSpatuzza e attribuite a Graviano si legano a Nino Lo Giudice, Consolato Villani e alla stagione delle bombe (volontariamente senza vittime e vale la pena sottolinearlo molte volte) di Reggio a cavallo tra il 2 gennaio e il 5 ottobre 2010.

Consolato Villani per pentirsi non si presentò alla procura di Reggio Calabria all’epoca guidata da Pignatone ma direttamente nella sede romana della Dna di Via Giulia dove non venne ricevuto e allora andò a Bologna e solo da lì la Procura di Reggio venne avvisata.

L’11 aprile 2012 Antonio Cortese, uno degli uomini che avrebbero messo la bomba rudimentale esplosa nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2010 presso la Procura generale di Reggio Calabria, viene interrogato presso la Guardia di finanza di Villa San Giovanni dal procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafiaGianfranco Donadio. A darne notizia è lo stesso Minniti suCalabria Ora del 10 maggio. Sul colloquio investigativo riserbo assoluto ma a quel che si sa è che sarebbe stato lo stesso Nino Lo Giudice a fare a Donadio* il nome di Cortese come soggetto d’interesse. Chissà , a Cosa nostra un bombarolo in più, uno in memo, poteva comunque far comodo nella stagione delle stragi (magari rientrava nel “pacchetto” del “contributo” al quale si sarebbe prestata la ˜ndrangheta).

Forse la Dna va alla ricerca di chi in quella stagione potesse aver contribuito alla strategia del terrore di qua e di là  dello Stretto.Donadio*, sentito dal Sole-24 Ore, non pronuncia una sola parola di commento che sia una. Neppure quando chi scrive gli ha chiesto di commentare le accuse infamanti contenute nel video e nel memoriale di Lo Giudice. Una sua parola chiarificatrice per smentire il “nano” sarebbe stata (ed è) importante ma non c’è stato nulla da fare.* Fatto sta che la strategia delle stragi, va ripetuto, non è propria della ˜ndrangheta, come ebbe modo di ribadire recentemente il pentito Nino Fiume. «Giuseppe De Stefano “ ha detto Fiume nel corso di un’udienza del processo Meta a Reggio Calabria “ mi disse che i killer che uccisero il giudice Scopellitierano due calabresi. Devo dire anche che De Stefano mi disse che i Garonfolo erano contrari a quest’azione».

IL GIUDICE SCOPELLITI

Sul caso Scopelliti la Procura di Reggio Calabria da pochissimo ha aperto un fascicolo (come anticipato dal Sole-24 Ore il 9 agosto 2012 anche se inutilmente negato) di cui è titolare il capo della Procura Federico Cafiero De Raho, oltre agli aggiuntiSferlazza Ottavio, Prestipino Giarritta Michele e al sostitutoGiuseppe Lombardo.

Fiume ha ribadito che nel 1992 Cosa Nostra decise di attaccare lo Stato e, garante

della pax reggina, chiese aiuto alla ‘ndrangheta. «Una prima riunione “ spiega Fiume “ fu a Rosarno ma io non vi partecipai ed un’altra a Limbadi dove andai anche io. Della prima me ne parlarono Giuseppe e Carmine De Stefano, ma ancora di piùVincenzino Zappia. Da quel che ricordo, oltre a loro vi era anche un esponente della ‘ndrangheta cosentina, ovvero un certo Franco Pino. L’incontro avvenne all’hotel Vittoria di Rosarno ed in quell’occasione c’erano anche i siciliani che chiesero di poter coinvolgere i calabresi nelle stragi». Ma la decisione fu presa nel corso del secondo incontro che avvenne, racconta Fiume, al Blue paradise di Parghelia: «All’incontro erano presenti anche Luigi Mancuso, Pino Piromalli, Peppe De Stefano, Nino PescePeppe De Stefano diceva che non andava bene. Sarebbe stato più facile avvicinare un magistrato oppure al massimo delegittimarlo». Da qui la scelta di dire “no” a Cosa Nostra e magari cedere su qualche aspetto. La morte dei due Carabinieri a Scilla rientra in questa strategia?

Difficile da credere anche perché dopo le dichiarazioni diSpatuzza del 2009 la Dna, attraverso l’allora aggiunto Enzo Macrì, che lo ha rivelato ieri a chi scrive, senti Calabrò il quale ribadì in un colloquio investigativo che dietro l’omicidio dei due Carabinieri non c’era nessuna tessera di una strategia stragista che accumunava Cosa nostra alla ˜ndrangheta.

Difficile da credere anche se si riporta la memoria ad allora, visto che l’omicidio dei due Carabinieri avvenne dopo una serie di lunghi attentati, agguati e intimidazioni all’Arma in un clima di tensione che viveva tutta Reggio, visto che gli strascichi della seconda guerra di mafia non avevano ancora terminato del tutto gli effetti.

Per quel duplice omicidio venne utilizzata una Beretta M12 calibro 9 parabellum, arma micidiale e in dotazione agli stessi Carabinieri, all’Esercito e alla Polizia e in quell’epoca venero controllati tutti gli M12 in dotazione fino a che non si scoprì che nessuno di quelli aveva sparato. L’allora Comandante generale Luigi Federici scese persino a Reggio Calabria per tranquillizzare i suoi uomini e le cronache raccontano che una notte si infilò come terzo uomo in una gazzella di pattuglia.

CONSOLATO VILLANI, ALTRO BOMBAROLO.

Consolato Villani, pentito della famiglia Lo Giudice, racconta in udienza al pm reggino Giuseppe Lombardo alcuni particolari dell’omicidio dei due Carabinieri a Scilla. «Al termine della seconda guerra di ‘ndrangheta, la cosca Latella-Ficara “ affermaVillani – vedeva nei miei familiari un obiettivo per far loro un torto. Sentivo un odio profondo nei confronti di quelle persone. Mi unisco assieme a Giuseppe Calabrò, con l’obiettivo di recuperare delle armi e poter uccidere Vincenzo Ficara. Una volta prese le armi i due carabinieri cercano di controllarci e Calabrò li spara con l’M12 che aveva in auto». Alla domanda diLombardo se quella fosse un’azione di fuoco programmata,Villani frena lasciando una suspence che sembra fatta apposta per alimentare sospetti o forse per arricchire di “carrette” e “tragediate” una storia in cui di tragedie ne compaiono a vagonate: «Sì, l’avevamo programmata, ma non posso rispondere su questo punto».

IL MEMORIALE DI LO GIUDICE.

L’ultimo tassello, solo al momento, del quale, inevitabilmente, dovrà  prendere atto la Procura di Palermo, è il memoriale di Nino Lo Giudice, che sicuramente avrà  acquisito agli atti. Chi è costui? Affiliato ad una cosca da anni senza arte né parte di cui lui stesso ora nega l’esistenza, detto il “nano”, si era pentito il 15 ottobre 2010, 8 giorni dopo essere stato arrestato, accusando se stesso, oltre ad alcuni complici, di essere l’autore della bomba messa alla Procura generale di Reggio Calabria nella notte tra il 2 e il 3 gennaio 2010 , di quella piazzata e fatta esplodere nell’androne di casa del Procuratore generale Salvatore Di Landro il 26 agosto dello stesso anno, oltre che del bazooka fatto ritrovare due mesi dopo davanti alla sede del Tribunale il 5 ottobre 2010.

Dalle sue confessioni “ ritenute altamente inattendibili dal procuratore Di Landro non più tardi di qualche giorno fa, alla notizia della sua scomparsa dal luogo segreto in cui era sottoposto ai domiciliari dove scontava una pena di 6 anni e 4 mesi “ erano scaturite, come in una sorta di gemmazione giudiziaria, una serie di procedimenti anche nei confronti di magistrati antimafia. Come quello che ha colpito l’ex numero 2 della Dna, Alberto Cisterna, che era stato accusato di corruzione in atti giudiziari, salvo poi vedersi anni due anni dopo archiviare l’accusa mentre nel frattempo la sua carriera era stata distrutta e la sua immagine di Servitore dello Stato massacrata. I mandanti e i motivi delle gesta di cui si è accollato le responsabilità  Lo Giudice, sono sempre rimasti a dir poco fumosi, al punto che i fratelli Luciano e Maurizione avevano preso nettamente le distanze invitando gli stessi pm e l’opinione pubblica a meditare sulle rappresentazioni fornite. Anche i pentiti Massimo Napoletano e Antonio Di Dieco avevano presentato memoriali alle Procure raccontando per filo e per segno la “tragediata” messa in scena da Lo Giudice di cui erano stati compagni in carcere a Rebibbia, ma non erano stati ritenuti credibili. Credibile era solo lui, il “nano”.

Lo Giudice che avrebbe dovuto testimoniare nell’ennesimo processo ma già  dalle 36 ore precedenti non si avevano più sue notizie, è scomparso da Macerata, nonostante il Nucleo operativo dei pentiti (Nop) del Viminale lo tenesse sotto controllo insieme alla sua compagna.

Sei giorni fa doppio colpo di scena: prima una lettera-memoriale e una sim card fatte giungere al Tribunale di Reggio Calabria nel corso del quale si svolgeva l’udienza del processo Meta, con la pubblica accusa sostenuta dal pm Giuseppe Lombardo e poi un altro memoriale (verosimilmente uguale al primo) oltre ad una cassetta filmata e una registrata, fatte giungere in mattinata all’avvocato Giuseppe Nardo.

IL CONTENUTO.

Lo Giudice come prima cosa dichiara testualmente che dietro la responsabilità  degli attentati ci sono «alte cariche dello Stato, servizi deviati e professionisti molto noti» e invita lo stesso Di Landro a dire ciò che sa. Cosi come si produce in dichiarazioni destinate a provocare un terremoto quando, rivolgendosi ai pmSalvatore Di LandroGiuseppe Pignatone, Michele Prestipino Giarritta (attualmente Procuratore aggiunto a Reggio) e Ronchi Beatrice e dell’ex capo della squadra mobile Cortese Renato, parla di «cricca». Accuse infamati alle quali i pm sapranno rispondere senza alun dubbio.

Nella missiva Lo Giudice dice di non sapere nulla di affiliazioni e ˜ndrangheta e conferma che il rancore verso chi gli aveva fatto del male è stato alla base della sua condotta. Cisterna? Mai saputo nulla sul suo conto. La stessa cosa su altri due pm: Enzo Macrì eFrancesco Mollace.

LA LETTURA IN FILIGRANA

Ma nel memoriale si lancia in una accusa di cui (forse) non comprende appieno la valenza. O forse si e allora si presta a confondere le acque e richiama l’altro presunti “bombarolo” del gennaio e agosto 2010, Consolato Villani. E nel leggere quel che segue, ricollegatelo a quanto scritto da Consolato Minniti sugli interrogatori presso la Guardia di Finanza e ricollegatelo al video che il “nano” ha girato e che è visibile anche sul portale del Sole 24 Ore (basta cercare nel motore di ricerca).

Il collegamento è d’obbligo perché se il giornalista ha fatto semplicemente cronaca, Lo Giudice racconta la sua verità  dirompente e devastante su quegli interrogatori.

«Ancora prima di me “ scrive Lo Giudice in riferimento all’interrogatorio con la Dna a cui viene sottoposto – era stato convocato Villani Consolato e sicuramente e stato minacciato nelle medesime condizioni. L’ufficio della Dna è un luogo dove vengono convocati i collaboratori per impiantare tragedie e i capi sono i “registi e noi gli attori”».

Nella sua lettera/memoriale in un italiano zoppicantissimo, racconta che il 18 dicembre 2012, mentre stava per deporre in videoconferenza, viene invitato dal pm della Dna Gianfranco Donadio* a sostenere un colloquio investigativo il cui scopo era quello di «impiantare una tragedia a persone a me sconosciute (tale Giovanni Aiello e una certa Antonella che non sapevo che esistevano e che malgrado la mia opposizione a tale richiesta, ascolta registrazione integrale) ho subito forti pressioni e minacciato che se non rispondevo quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti, accettai quanto mi veniva suggerito dal dottor Donadio e, facendomi firmare quanto a lui conveniva, altresì, in tale circostanza mi veniva richiesto se ero a conoscenza se Villani era il vero killer che uccisero i Carabinieri a Reggio Calabria, in’oltre se a presentarmi tale Aiello fosse stato mio fratello Luciano e, io gli risposi di no, che era stato il capitano Saverio Stracuzzi e lui quando gli dissi così approvò con soddisfazione tale risposta, dopo volle sapere se io ero i possesso di fotografie di tale Aiello e risposi di sì, e come li avessi avuti, gli risposi che a farli era stato Antonio Cortese e lui accettò, poi mi disse se questo tizio mi aveva confidato qualcosa durante la nostra frequentazione e, di molto serio (degli attentati Borsellino e di omicidi avvenuti in Sicilia ai danni di due poliziotti in borghesi) e di altro omicidio consumato ai danni di un bambino avvenuto sempre in Sicilia.

Alla fine di questi discorsi chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone di cui parlava e così mi disse che si trattava di un certo Aiello e una certa Antonella tutti e due facevano parte a servizi deviati dello Stato e che la donna era stata ad Alghero in una base militare dove la fecero addestrare per commettere attentati e omicidi e che era solito recarsi a Catanzaro in una località  balneare per trascorrere il periodo estivo».

Donadio*, raggiunto dal Sole-24 Ore, non commenta neppure questa volta e lascia che sia il tempo a fare giustizia anche se una riflessione si impone: ma la Dna sta indagando sulle stragi mafiose? Se così fosse a Caltanissetta lo sanno?

Certo è che resta un’altra sensazione: e se in questo memoriale diLo Giudice, sulla parte che riguarda i presunti interrogatori sugli omicidi eccellenti (Borsellino, espressamente citato da Lo Giudice) ci fosse un gigantesco tentativo di depistaggio e di inquinamento del lavoro che tra mille difficoltà  stanno effettuando i pm di Palermo e Calatanissetta? Se sì, di chi è la regia?

Credo, nel concludere per il momento questo tema, che un procedimento per calunnia a carico di Lo Giudice sia quantomeno obbligatorio. O no?

Tratto sa : http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/06/la-dda-di-palermo-riapre-lindagine-sulla-cattura-di-provenzano-intrecci-diabolici-tra-un-gigante-spa.html

 

 

Milano 14 GIUGNO 2013 – 9:23

di  r.galullo@ilsole24ore.com

Lo Giudice, “nano spentito” calabrese ma col pallino dei servizi segreti in Sicilia: nel suo memoriale Gladio e gli omicidi di agenti del Sisde

Ci sono parti del memoriale e del video di Nino Lo Giudice, ilpentito calabrese pentito di essersi pentito e che forse si ripentirà  del pentimento”, consegnati a più di un mittente, sulle quali vale la pena di soffermarsi.

Però, come vedete “ amati lettori di questo umile e umido blog “ nonostante tante siano le sollecitazioni, da quando il “memoriale smemorato” è stato diffuso (da me per primo sul portale del Sole-24 Ore) ne sto alla larga per le parti che toccano le radici calabresi.

La mia sensazione “ confidata ad alta voce “ è che per il momento è meglio stare ad aspettare. La partita di tennis è iniziata da poco ed è bene fare lo spettatore e non il giudice di linea e tantomeno l’arbitro (cosa quest’ultima che non spetta mai ad un giornalista).

COSTRETTO (?) A PARLARE DELLA SICILIA

La parte che vorrei analizzare con voi è quella nella quale Lo Giudice “ chiamando in causa il sostituto procuratore nazionale antimafia Gianfranco Donadio “ entra (volontariamente o indotto non sta a me dirlo) in una parte più grande di lui, mischiando nomi e situazioni che a lui (forse) non diranno nulla ma che, ad una lettura più attenta, sembrano fatti apposta per un film sulla Spectremondiale. A lui “ calabrese “ seconda l’accusa che egli stesso fa, sarebbe toccato il compito di raccontare di alcune  scottanti vicende accadute in Sicilia. E a lui sarebbe toccato addentrarsi nei misteri profondi che chiamano inevitabilmente in causa anche la parte più sporca dei servizi segreti.

Ieri, ci informa la collega Alessia Candito suwww.corrieredellacalabria.it. il procuratore capo Federico Cafiero De Raho ha annunciato che la Procura sta «formando due fascicoli, uno andrà  a Perugia, uno andrà  a Catanzaro. Si tratta di fascicoli perché oltre al memoriale, verranno allegati tutti gli atti e gli accertamenti preliminari che la Procura di Reggio ha ritenuto di fare». Ai magistrati di Catanzaro, competenti sui profili riguardanti i colleghi in servizio a Reggio, spetterà  valutare se e quanto ci sia di vero nelle pressioni che il “nano” ha denuncia di aver subìto da quella che lui appella «cricca». Alla Procura di Perugia, invece, spetterà  l’analogo compito nei confronti proprio diDonadio* che secondo Lo Giudice, allegando video e decreto di citazione di un colloquio investigativo nel carcere di Rebibbia pochi giorni prima del Natale 2012, lo avrebbe obbligato a riferire particolari di cui non era a conoscenza. Il Sole-24 Ore – attraverso chi scrive – al momento della diffusione del memoriale e del video, altamente diffamatori per un magistrato del calibro di Donadio*oltre che per gli atri magistrati coinvolti nel suo scritto e nel suo video, ha contattato il magistrato della Dna per avere un commento sul memoriale stesso e sul video ma si è sentito opporre un gentile ma fermo diniego. Il magistrato Donadio* ha dichiarato ancora una volta a chi scrive che il silenzio in questo momento è d’oro e che il tempo sarà  galantuomo. Principio valido anche per gli altri magistrati chiamati in causa da Lo Giudice e se i segni sono importanti, va notato che Federico Cafiero De Raho sta lavorando come un solo ufficio, a testimoniare l’importanza del gruppo che non viene intaccato dalle chiacchiere, anche con alcuni di quei magistrati chiamati in causa dal “nano”, a testimonianza che le chiacchiere sono chiacchiere (quelle di Lo Giudice) e i fatti sono fatti (quelli della Procura). Inutile far notare a Donadio che in un momento come questo sarebbe stato forse il caso di dire la sua.

IL MEMORIALE

E allora trascriviamola quella parte sulla quale già  ieri ho svolto alcune riflessioni (rimando al post in archivio). Secondo il “nano spentito”, lo scopo del colloquio investigativo di Gianfranco Donadio era quello di «impiantare una tragedia a persone a me sconosciute (tale Giovanni Aiello e una certa Antonella che non sapevo che esistevano e che malgrado la mia opposizione a tale richiesta, ascolta registrazione integrale) ho subito forti pressioni e minacciato che se non rispondevo quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti, accettai quanto mi veniva suggerito dal dottor Donadio e, facendomi firmare quanto a lui conveniva, altresì, in tale circostanza mi veniva richiesto se ero a conoscenza se Villani era il vero killer che uccisero i Carabinieri a Reggio Calabria, in’oltre se a presentarmi tale Aiello fosse stato mio fratello Luciano e, io gli risposi di no, che era stato il capitano Saverio Stracuzzi e lui quando gli dissi così approvò con soddisfazione tale risposta, dopo volle sapere se io ero i possesso di fotografie di tale Aiello e risposi di sì, e come li avessi avuti, gli risposi che a farli era stato Antonio Cortese e lui accettò, poi mi disse se questo tizio mi aveva confidato qualcosa durante la nostra frequentazione e, di molto serio (degli attentatiBorsellino e di omicidi avvenuti in Sicilia ai danni di due poliziotti in borghesi) e di altro omicidio consumato ai danni di un bambino avvenuto sempre in Sicilia.

Alla fine di questi discorsi chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone di cui parlava e così mi disse che si trattava di un certo Aiello e una certa Antonella tutti e due facevano parte a servizi deviati dello Stato e che la donna era stata ad Alghero in una base militare dove la fecero addestrare per commettere attentati e omicidi e che era solito recarsi a Catanzaro in una località  balneare per trascorrere il periodo estivo».

Ora anche ad un orbo salterebbe all’occhio che il “nano spentito” prima dice che «tale Giovanni Aiello» era persona a lui sconosciuta poi, qualche riga dopo dirà  che a presentarglielo non era stato il fratello Luciano ma «il capitano Saverio Stracuzzi». Ma non è di questa stranezza che voglio parlarvi “ se cominciassi con le follie contenute nel “memoriale smemorato” non finirei più e mi periterò in questo esercizio solo quando sarà  il momento “ ma della miscellanea o, se preferite vista la stagione, della macedonia che Lo Giudice serve sul tavolo del depistaggio. Non so se consapevole, inconsapevole o parzialmente consapevole. Parimenti non so se in combutta con Tizio, Caio o Sempronio.

Tutto sembra ruotare intorno alle confidenze che durante la «frequentazione» (che a questo punto suppongo che sia inventata; o no?), quel tal Giovanni Aiello e quella tal Antonella gli avrebbero fatto di «molto serio»: dall’attentato a Borsellino all’omicidio di due poliziotti in borghese, per finire con un altro omicidio consumato ai danni di un bambino. I due baldi “ Aiello e Antonella “ dovevano essere al centro della “tragediata”.

L’OMICIDIO DEL BAMBINO

Non è compito mio (ma credo che mai si saprà  la verità ) giudicare chi e se abbia messo sul tavolo del “nano spentito” questo zibaldone di uova marce.

Abbiamo già  detto e scritto che Lo Giudice imputa questi nomi e queste situazioni a Donadio ma “ se mai così fosse “ proporrei che Donadio* lasci la Dna per unirsi nella scrittura a Dan Brown. Sarebbe altresì pronto a ereditare la fantasiosa penna di Karl Stig-Erland Larsson, ahinoi prematuramente scomparso.

Di bambini scomparsi in Sicilia io ne ricordo uno e ho avuto la drammatica possibilità  di vedere la sua camera di tortura e su quella pregare. Era il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, mafioso pentitosi. Fu rapito, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio del 1996, dopo 779 giorni di martirio.

Che c’azzecchi, direbbe Antonio Di Pietro, con gli altri riferimenti che il “nano spentito” fa (o che gli fanno fare) lo sa solo il buon Dio.

I POLIZIOTTI IN BORGHESE

Dando per scontato che l’unica cosa certa per la quale gli si potrebbe eventualmente chiedere conto è l’attentato a Paolo Borsellino (del quale credo che Lo Giudice sappia quel che so io del platipo, più volgarmente conosciuto come ornitorinco), per quanto mi sforzi di capire, proprio non comprendo come si possa mischiare tutto nel frullatore e soprattutto a chi giovi (state certi che a qualcuno giova).

I due poliziotti che vennero uccisi dopo il fallito attentato dell’Addaura ai danni di Giovanni Falcone, furono Antonio Agostino ucciso a Villagrazia di Carini (Palermo) il 5 agosto 1989 con la giovane compagna incinta e un collaboratore del Sisde, come del resto era Agostino, ex poliziotto, Emanuele Piazza, scomparso a Sferracavallo (Palermo) il 16 marzo 1990. La loro morte/scomparsa fu collegata alla presenza di un gommone e di due sub all’Addaura, dove avevano attentato alla vita di Giovanni Falcone. Sarebbero stati loro a evitare il peggio fingendosi sommozzatori. Solo ipotesi. Di certo c’è che il papà  di Emanuele,Giustino Piazza, inviò una memoria alla Procura di Palermo nella quale scrisse: «¦i funzionari della Polizia di Stato si sono limitati ad acquisire relazioni di servizio e non hanno svolto neanche le investigazioni di routine: di fatto hanno chiuso l’indagine senza alcuna acquisizione, come se, anziché scoprire volessero coprire chissà  quali responsabilità ¦ Il procedimento relativo alla scomparsa di mio figlio è stato successivamente archiviato¦ Sin dall’inizio delle indagini il Sisde ha negato l’appartenenza diEmanuele ai servizi¦».

VOGLIO ANDARE AD ALGHERO

L’ultima fantasmagorica storia che viene accennata è quella del luogo di addestramento nel quale si sarebbero esercitati per «commettere attentati e omicidi» lo stesso Aiello e la fida segretaria Antonella. E dove si addestravano? Risposta: ad Alghero. In una base militare.

E qui, inconsapevolmente o meno chi lo sa, il “nano spentito” tocca un nervo delicatissimo e fa galoppare la fantasia nella prateria del Centro addeestramento guastatori (Cag) di Punta Poglina a Capo Marrargiu, pochi chilometri a sud di Alghero. E chi si addestrava lì? Secondo la storia e la leggenda, i “gladiatori” dellaStay Behind de noantri.

In Italia, quando non si sa che collante trovare per i misfatti più folli, o si guarda alla P2 o a Gladio (e le connessioni tra loro non mancano).

L’ex capo dell’ufficio amministrazione del Sifar (l’ex Servizio di informazione delle forze armate) Luigi Tagliamonte, poi capo dell’ufficio programmazione e bilancio del comando generale dell’Arma dei Carabinieri, durante una delle varie inchieste che ruotarono intorno alla base di addestramento di Gladio dichiarò: «Sapevo che presso il Cag si effettuavano dei corsi di addestramento alla guerriglia, al sabotaggio, all’uso degli esplosivi al fine di impiegare le persone addestrate in caso di sovvertimenti di piazza,in caso che il Pci avesse preso il potere¦»

Insomma anche i due baldi Giovanni e Antonella si addestravano alla pugna come i gladiatori. Ne facevano parte? Visto che la fantasia corre, la faccio correre anche io richiamando un pezzo del mio collega al Sole-24 Ore Beppe Oddo, che il 3 maggio 2012 scrisse: «Falcone non doveva occuparsi d’altro che di mafia militare e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi: questo era il messaggio che veniva dall’alto. E quando cercò di capire le eventuali connessioni tra gli omicidi eccellenti e la Gladio (la struttura paramilitare segreta, creata per contrastare l’avanzata della sinistra) gli fu impedito di farlo. Nella sua agenda elettronica c’è un appunto su una richiesta di incontro ai magistrati romani che seguivano quella pista. Prosegue Scarpinato (l’attuale capo della Procura generale di Palermo, ndr): “Falcone aveva preso degli appuntamenti in seguito a un esposto della parte civile del processo La Torre (il segretario regionale del Pci assassinato da Cosa nostra, ndr) da cui emergevano possibili collegamenti tra Gladio e questo omicidio. Ma l’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, li disdisse”».

Il “nano spentito”: se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. E con lui i coautori, se ci sono, della trama, degna di 007. Mi chiamo Lo Giudice¦Nino Lo Giudice¦

tratto da : http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2013/06/lo-giudice-nano-spentito-calabrese-ma-col-pallino-dei-servizi-segreti-in-sicilia-nel-suo-memoriale-gladio-e-gli-omici.html

P.S * Oggi, 21 giugno 2013 ho incontrato Donadio ad un convegno a Rimini e gli ho chiesto, ancora una volta, di smentire le frasi calunniose e diffamatorie nei suoi confronti, contenute nel memoriale e nel video di Lo Giudice. Gli ho chiesto persino la possibilità  di un’intervista in cui potesse fornire la rappresentazione delle cose. Niente da fare. Ancora una volta richiesta fermamente ma dolcemente respinta.