L’Affaire Gas Spa: Gli ”obblighi” di Brancato erano per Ciancimino
Lo aveva anticipato Massimo Ciancimino all’udienza del 23 marzo 2009 scorso a Bologna. Ora a confermare che le quote della Gas spa (Gasdotti Azienda Siciliana) riconducibili a suo padre erano in realtà rappresentate dal gruppo Brancato ( Ezio Brancato, la moglie D’Anna maria, le figlie Monia Brancato ed Antonella Brancato) parte civile al processo per riciclaggio, è Gianni Lapis.
Parlando di aspetti che finora erano rimasti nell’ombra, le dichiarazioni del professore tributarista, capofila del cinquanta per cento circa della compagine societaria dell’azienda, potrebbero offrire a questo punto una nuova visione dei fatti relativi agli affari del gas e agli investimenti della ditta “Ciancimino & co.” ponendo la vicenda sotto una nuova luce. Il Tema centrale riguarda il sistema tangentizio e la spartizione degli appalti pubblici che hanno caratterizzato la scena politica e imprenditoriale siciliana degli anni Ottanta. Un sistema collaudato da onorevoli, imprenditori e mafiosi di prim’ordine a beneficio di enormi interessi privati ottenuti con la speculazione dei finanziamenti pubblici erogati dalla Regione. Un meccanismo funzionante anche nella fornitura del gas nella quale Cosa Nostra guadagnava sulla cosiddetta “messa a posto” e sull’aggiudicazione dei lavori affidati ad imprese “vicine” o proprie. Si parla così di tangenti e mazzette che per centinaia di milioni delle vecchie lire sarebbero state ripartite sotto l’ombrello dell’azienda tra dirigenti e faccendieri grazie al contributo fondamentale di don Vito. Questi infatti, con la sua “influenza”, aveva fatto ottenere alla Gas l’appalto di metanizzazione a Caltanissetta arginando il pericolo del controllo mafioso, confinandolo “ secondo quanto aveva già spiegato Massimo Ciancimino – nella fase che caratterizzava l’acquisizione dei subappalti. Un compito che il professore di matematica di Provenzano avrebbe svolto per arginare l’arroganza dei corleonesi, soprattutto quella di Totò Riina con cui non andava d’accordo, proteggendo l’amministrazione aziendale da un suo intervento diretto.
In questo modo il tavolino dell’ “Affaire Gas Spa” era riservato a una certa classe borghese che formalmente non compariva ma che vi avrebbe partecipato attraverso quote occulte. Alcuni nomi eccellenti erano stati già snocciolati durante l’udienza bolognese. Mercoledì il Giornale di Sicilia ne ha riportato degli altri. Vi erano gli andreottiani Salvo Lima e Calogero Pumilia a cui spettava il 10 per cento ciascuno. Michele Fiore, il primo socio dell’azienda, aveva il 5 per cento mentre Vito Ciancimino che pretendeva il 15 per cento si accordò col 13,50. Ma le cointeressenze avrebbero riguardato anche Guido Brodato e l’ex senatore del Psi Pietro Pizzo (assolto in appello l’altro ieri a Marsala dall’accusa di voto di scambio con la mafia) che, riporta il quotidiano siciliano, “si sarebbe intestato (“lui o la moglie”) alcune proprietà di uno dei soci della Gas, Ezio Brancato”. La lista dei personaggi di primo livello però non finisce qui, molti omissis coprirebbero altri nominativi. Tra tutti, vi sarebbe anche quello del senatore Carlo Vizzini (Psdi, oggi Pdl) e dell’on. Saverio Romano, già sottosegretario al Lavoro del Governo Berlusconi. Ad entrambi sarebbero stati elargiti dei soldi. Al primo in qualità di socio segreto della Sirco Fingas, al secondo per ricompensarlo di un qualche intervento risolutivo.
Notizie queste che seppure smentite dagli interessati (la Procura aveva comunque negato l’iscrizione nel registro degli indagati del Sen. Vizzini, ndr) rimangono coperte dal più stretto riserbo all’interno di un’indagine che sta proseguendo a Palermo sotto il coordinamento dei pm Nino Di Matteo, l’aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava e Roberta Buzzolani.
“Io debbo dire che le dichiarazioni di Ciancimino “ ha verbalizzato Lapis ai magistrati l’11 febbraio scorso “ sono un po’ da correggere, in altre parti invece sono totalmente corrette. La vedova Brancato, Maria D’Anna, mi evidenziò il bisogno di andare a pagare una certa somma al Ciancimino non in quanto socio, ma in quanto c’erano degli obblighi fra il marito e il gruppo Ciancimino¦”.
Quali obblighi? Chiedono i magistrati. Lapis ritorna ai primissimi anni Ottanta quando la Gas voleva accaparrarsi l’appalto per metanizzare Caltanissetta.
“Quando fu presentata la domanda, alcuni amici locali ci dissero che la gara era già stata – diciamo – aggiudicata a un altro gruppo, la Siciliana Gas che aveva fatto l’accordo con il partito comunista e con la Dc di sinistra, attraverso i sindacati¦ A quel punto Ezio Brancato si rivolse a Lima e Lima gli disse: ˜Guarda, non posso fare nulla, devi parlare con Ciancimino’ ”.
E’ lì che nacque la Nissena Gas. Ma Ciancimino anche se ancora libero era un personaggio già abbastanza chiacchierato e Lapis non avrebbe voluto dargli le quote della Gas, in cui vi erano le azioni della sua famiglia. “Non lo volevo “ ha detto il tributarista -. Ma nella Nissena dovetti sopportarlo, non ne potevo fare a meno”. Ciancimino pretendeva così la propria fetta per “interventi” mirati alla rimozione di ostacoli amministrativi e di ingerenza mafiosa. Con questo assetto si era messa in moto la macchina dei lavori con il pagamento della “messa a posto” (come quella versata a Giovanni Sciarabba di Misilmeri), e con i lavori affidati a Ciccio Pastoia, braccio destro di Provenzano a cui don Vito era particolarmente legato. “Ma io “ si discolpa Lapis “ non sapevo niente, né volevo saperne, di pagamenti alla mafia. E così “ passati gli anni – (intorno al 2002) butto fuori Sciarabba (che pretendeva una percentuale maggiore di quella pattuita, ndr), rischiando la vita e tutelo il Gruppo Brancato. Ma la signora Brancato ha pagato lo stesso contro la mia volontà e quella del presidente della società , Luigi Italiano”.
Nel frattempo a Vito Ciancimino vengono concessi gli arresti domiciliari che sconta nella sua casa di Roma. Un giorno manda a chiamare Lapis. “Io ho un credito nei confronti di Brancato, cosa dobbiamo fare?”
Lapis risponde: “Io non né voglio sapere nulla arrangiatevi tra di voi”. Il sindaco pretende sei milioni di euro ma alla fine concorderà per 4 milioni e 700 mila euro.
Soldi che le eredi di Brancato (dopo la vendita dell’azienda agli acquirenti spagnoli della Gas Natural) avevano bonificato nei conti della figlia di Lapis, che a sua volta aveva messo a disposizione di Ciancimino nel conto svizzero Mignon. Insomma, conclude Lapis, “loro hanno dato l’equivalente di nove miliardi delle vecchie lire. Non è che uno paga nove miliardi senza motivo!”.
Una retribuzione che secondo l’avv. Giovanna Livreri, ex legale della gas e destinataria in passato delle confidenze di Maria D’Anna, vedova di Ezio Brancato, gli era dovuta perché don Vito “anche se era a Roma, aveva consentito loro di lavorare in serenità ”. Ma la sua presenza era da tempo ingombrante. E infatti “ ha continuato il legale – “ad agosto del 2000 con un escamotage pensavano di esserseli scaricati tutti e non gli mandò più neanche lo stipendio a Vito Ciancimino ¦ . Quello protestò violentemente e la D’Anna mi raccontò che sua figlia Monia si dovette fare la valigia, prendere i soldi in contanti e andarsene a Roma a portarglieli, in un’unica soluzione¦”. Alla fine “morto Ciancimino, dal 2002 cominciarono i problemi. Tutti volevano di più anche i mafiosi, gli estortori¦”.
L’affare del gas evidentemente funzionava molto bene anche perché il processo di metanizzazione che negli anni Ottanta si era sviluppato in diverse zone della Sicilia per poi allargarsi in settantaquattro comuni italiani giungendo fino in Abruzzo. In quegli anni parlare di Vito Ciancimino equivaleva a parlare di Provenzano, come disse Giuffrè: “la mente grigia di Provenzano era lui”. L’ex sindaco di Palermo “era colui che intratteneva rapporti con tutti¦ è stato l’uomo che ha avuto un ruolo in assoluto più importante per Provenzano¦”. Nonostante questo però (è qui sembrano concordare tutte le parti processuali), dentro la Gas non c’erano i suoi soldi. La “società – ha dichiarato l’avv. Livreri il 20 e il 22 gennaio 2009 – si è arricchita solo ed esclusivamente con i contributi dello Stato, cioè quei 120 milioni per cui la Gas è stata venduta (alla Gas Natural) sono soldi dei contribuenti”.
E, ribadisce, “Ezio Brancato era il deus ex machina di questa vicenda, era un dipendente dell’assessorato regionale all’Agricoltura, che emetteva i decreti per i pagamenti. La Signora (D’Anna) mi disse che era il cassiere della Democrazia cristiana”. Il collettore delle tangenti “ puntualizza – a partire dal ’74-’75. La Gas in sostanza non avrebbe mai sofferto di liquidità : “Emesso il decreto di pagamento, il professor Lapis andava alla Sicilcassa dove era stato prima amministratore e poi presidente del collegio sindacale, e bussava da Giovanni Ferraro, il presidente”.
E così che le anticipazioni erano garantite: “il Presidente prendeva 500 milioni (di vecchie lire) l’anno, qualunque impiegato, dirigente, figlie, figli, i generi, qualunque spiccia-faccende, 10 milioni al mese¦”. Dopo l’affare di Caltanissetta Brancato avrebbe pagato regali a tutti “andava con la valigetta a Roma” per dividere le percentuali: a Ciancimino il 15, a Lima il 10, a Pumilia un altro 10, a Fiore il 5.
Un business senza fine sotto l’ombra della mafia di Bernardo Provenzano che orbitava intorno a Ciancimino, garante di tutti gli equilibri.
Ed è qui che le parole di Giuffrè assumono un significato pregnante: “Nel mondo ci sono vari poteri. Imprenditoriale, economico, politico¦ per funzionare devono essere tutti collegati fra loro. Perché altrimenti il marchingegno non funziona. àˆ l’unione che fa la pericolosità ”. Una pericolosità data da quella convergenza d’interessi trasversale che lega i poteri, “occulti o deviati”, alla mafia e che spesso l’ha legittimata nelle sue iniziative più nefaste. Fra tante, la più importante e significativa, quella che ha riguardato la morte del giudice Paolo Borsellino, ucciso sì per mano mafiosa ma, come concludono le diverse sentenze, ubbidendo a “suggerimenti” esterni all’organizzazione. Un capitolo spinoso che si fonda sull’endemico problema del connubio tra mafia e politica di cui sono piene le carte giudiziarie, oggi attualizzato dalle dichiarazioni di alcuni pentiti (come Ignazio Fontana) e dalle rivelazioni di Massimo Ciancimino.
Quest’ultimo testimone diretto della trattativa che gli uomini del Ros avviarono nel 1992 con Cosa Nostra. Sono storie che compongono i fascicoli investigativi dei magistrati della Dda di Caltanissetta (competente dell’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi del ’92) e di Palermo. Gli ultimi titolari del processo a carico dell’ex capo del Sisde Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, che hanno chiamato a deporre l’erede più piccolo di Ciancimino a Roma (dal 21 al 23 giugno) nell’ambito del procedimento in cui i due militari sono imputati per favoreggiamento alla mafia. Un importante appuntamento in cui Massimo Ciancimino racconterà ciò che ha vissuto in quegli anni con suo padre, quando la casa di Palermo era frequentata da mafiosi e “signorotti” che con don Vito di Corleone facevano affari e condividevano società . Episodi zeppi di riferimenti che dovranno essere riscontrati ma che già si discutono nelle aule giudiziare.
Per questo Ciancimino junior sarà riascoltato dai giudici del suo processo d’appello per riciclaggio ed ancora, il 2 maggio prossimo come teste, nell’aula bunker di Milano, dal Collegio del Tribunale di Palermo impegnato nel giudizio a carico del primario della Radiologia del Maurizio Ascoli di Palermo ed ex deputato regionale di Forza Italia, Giovanni Mercadante, accusato di associazione mafiosa per aver curato durante la sua latitanza il capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano.