Lo scorso 15 febbraio 2013 i giudici della seconda sezione del Tribunale di Palermo, presieduta da Fabrizio La Cascia, hanno emesso la sentenza per il crac della Sicilcassa, il secondo istituto di credito siciliano, dichiarato insolvente per 3000 miliardi di lire nel 1997.

Una vicenda giudiziaria durata otto anni che si è conclusa con sette condanne pesanti e otto assoluzioni.

In particolare 9 anni di reclusione sono stati inflitti agli ex componenti del cda Giuseppe Adonia, Francesco Mormino, Pompeo Oliva, Marcello Gianfranco Adriano Maria Orlando e Giuseppe Viola, e a Gianni Lapis, l’ex presidente del collegio sindacale.

E infine 6 anni di reclusione all’ex direttore di filiale di Catania Antonio Mosto. Tutti sono stati riconosciuti colpevoli di bancarotta fraudolenta aggravata ma per Mosto è stata esclusa la “continuazione” tra il primo e il secondo capo d’imputazione (per cui la condanna è stata meno pesante). Assoluzione con formula piena, invece, per tutti gli altri otto imputati, e cioé l’ex direttore di filiale di Palermo Giuseppe Grado, e poi per Benedetto Emanuele, Elio Rocca, Gaetano Zilleri, Giuseppe Cirrincione, e anche per Maria Adelaide Graci, Daniela Graci e Calogera Falzone.

Il crack della storica banca siciliana è parte della storia ma i danni si ripercuotono ancora oggi sulle tasche degli italiani in favore di pochi speculatori. La struttura della liquidazione è ancora oggi in piedi, sotto la vigilanza della Banca d’Italia, ed ha il compito di provare a recuperare i crediti ereditati dal crack.

Lo scorso aprile il programma di Milena Gabanelli, Report, ha messo in evidenza proprio questo aspetto fornendo numeri inquietanti sul buco che il popolo italiano si trova a dover colmare.

In base all’inchiesta giornalistica diversi sono i “gruppi imprenditoriali” che hanno tratto vantaggio dal fallimento della banca. Tra questi vi è la Restivo gioielli srl, di Giovanni Restivo, presidente del consiglio di amministrazione della nota gioielleria Trucchi. Dalla Sicilcassa ha ricevuto finanziamenti per oltre 13 milioni di euro. I liquidatori, incaricati del recupero fondi (arrivati a 27 miliardi di vecchie lire) tentano la transazione. Restivo ne paga 3 estinguendo la propria posizione. Ma il nome del gioielliere è legato enormemente con quello di Gaetano Graci, Cavaliere del Lavoro di Catania, anch’egli finanziato dalla Sicilcassa, e a quello del cognato, Placido Filippo Aiello, entrambi ritenuti dagli inquirenti come vicini alla mafia.

“Il gruppo Graci è sicuramente quello che ha creato il più grosso deficit patrimoniale; è stata la causa principale del deficit patrimoniale della Sicilcassa. Alla fine ha 1238 miliardi 984 milioni di passivo, di saldo debitorio, il gruppo Graci”, dice il pm Dario Scaletta.

Il nome di Graci, come quello del professore Lapis,  si intreccia in varie inchieste contro Cosa nostra.

L’ imprenditore Graci , ad esempio, fu interrogato in relazione al viaggio di Michele Sindona in Sicilia. Nell’agosto del 1983 Graci ed altri cavalieri del lavoro catanesi furono accusati da Carlo Alberto Dalla Chiesa di un’alleanza con le cosche finalizzata alla conquista degli appalti a Palermo. Nel 1985 fu arrestato per evasione fiscale, insieme con altri imprenditori etnei. Nel giugno del 1994 il periodico “I Siciliani”, sulla base di dichiarazioni rese dal pentito Maurizio Avola, accusò Graci, che smentì, di essere il mandante dell’uccisione di Giuseppe Fava. Quindi è morto nel gennaio del 1996 mentre erano in corso indagini da parte della procura della Repubblica di Catania per concorso esterno in associazione mafiosa per rapporti con il boss Nitto Santapaola.

Possedeva cantieri di costruzione in ogni parte dell’isola e dell’Italia, aziende agricole e villaggi turistici. Suoi erano anche la terza banca per capitali in Sicilia, la Banca agricola etnea, alcuni hotel di lusso e vaste tenute in cui organizzava battute di caccia.
In base all’indagine di Report, proprio la Banca agricola etnea aveva ricevuto dalla Sicilcassa un forte finanziamento e al momento del crack viene venduta per 173 miliardi di lire ad Antonveneta. E quei soldi sono poi finiti nei conti intestati in parte agli eredi Graci.
Alcuni di questi, quelli presenti in Italia, sono stati poi recuperati dagli inquirenti, mentre quelli all’estero, stimati attorno ai 44 milioni di euro, sarebbero ancora oggi in disponibilità  degli eredi e, come sottolinea il pm, pur essendo state assolte le figlie dell’imprenditore, “ciò non toglie che il consiglio di amministrazione della Sicilcassa ha concesso un finanziamento che non era possibile concedere”.

In base all’indagine di Report dal 1997 ad oggi i liquidatori nominati da Bankitalia hanno potuto recuperare dei complessivi 640 milioni di euro del gruppo Graci, circa 194 milioni. Un’inezia. Ma il dramma diventa assai maggiore se si prendono in considerazione altri finanziamenti compiuti dalla ex Sicilcassa, come quelli al gruppo Ienna, prestanome dei boss Graviano, pari a 47 milioni e mezzo di euro (recuperati meno di 13 milioni). E poi ancora al Gruppo del Cavaliere del Lavoro di Catania Costanzo (152 milioni), gruppo Alfano (39 milioni) e al gruppo Arturo Cassina (87 milioni). Soldi svaniti nel nulla che hanno creato un buco che si ripercuote inevitabilmente sulla Banca d’Italia e, di riflesso, sui cittadini italiani. “Se noi abbiamo una perdita da ammortizzare daremo meno utili al Tesoro, quindi il tesoro dovrà  fare più tasse”, è il ragionamento semplice ma chiaro di un ex dipendete della Banca d’Italia. Ma il mistero si fa ancora più grave quando la giornalista Di Pasquale pone in evidenza la scelta fatta nel ’97 di cedere una parte dei crediti della Sicilcassa al Banco di Sicilia e di lasciare i crediti come quelli dei Graci alla liquidazione.

Una scelta alquanto discutibile che, a quanto pare, sarebbe stata oculata secondo quanto dichiarato dal professore Carlo Dominici, presidente della fondazione Banco di Sicilia dal ’91 al ’98. “Alla liquidazione vennero lasciati i grandi crediti quelli che consideravamo irrecuperabili”. 

Tratto da : http://www.antimafiaduemila.com/2013060643303/cosa-nostra/sicilcassa-quel-crack-che-pagano-gli-italiani.html