La distanza di una scrivania
Serafino Famà assomigliava fisicamente a una statua greca: a una di quelle che ogni tanto emergono dai fondali del Mediterraneo, strappate al loro sonno negli abissi dalle reti dei pescatori, che portano su, indifferentemente, il cadavere di un povero disgraziato annegato nel naufragio di un barcone o le forme perfette di una scultura classica fuse nel bruno bronzo.
Serafino Famà era la copia del dio Pan, con i suoi lineamenti da satiro, i suoi capelli crespi, spruzzati di grigio. E poi quel nome, Serafino, che anche'esso evocava scenari bucolici e campestri. Si rimaneva quasi stupiti nel vederlo con la toga sulle spalle e il codice in mano nell'aula bunker di Bicocca, a Catania, durante i grandi processi di mafia della prima metà degli anni Novanta. Prima di quei processi Serafino Famà non era tra i principi del foro. Non compariva, se non di rado, sul monocorde del foglio di Mario Ciancio: non lo si vedeva nei salotti televisivi. Era però uno di quegli avvocati dai quali “ se mai ce ne fosse stato bisogno “ andavi per essere difeso.
Famà , che nella vita era una persona piacevole, ironica come spesso lo sanno essere solo i catanesi, in aula si trasformava. Era spigoloso, diventava un duro. Uno che non lasciava passare niente. La sua difesa era tecnica, precisa, inappuntabile e poi non mollava mai la presa. Difendeva i mafiosi e in quelle difese ci metteva l'anima, come deve fare un avvocato, e appunto, lui, l'avvocato faceva. Non faceva altro. Non faceva il “consigliere”, non entrava nelle faccende dei suoi clienti. Lui aveva il compito di garantire il diritto costituzionale alla difesa e la sua era una difesa vera, ma sempre assolutamente corretta. Tra lui e i mafiosi suoi clienti c'era sempre di mezzo la scrivania del suo studio. Mai una confidenza, mai un ammiccare. Mai qualcosa che non fosse il suo dovere di legale di fiducia. Soprattutto mai una promessa, una parola a mezza bocca.
“ZONA GRIGIA”
Famà stava al suo posto e non aveva mai ceduto alle tentazioni e le lusinghe che l'avrebbero attirato in quella zona grigia nella quale molti professionisti “ non solo avvocati “ si muovono con disinvoltura. E' in quella zona grigia che la famiglia catanese di Cosa Nostra, ancor prima delle altre consorterie mafiose siciliane, diventa mafia imprenditrice. Per farlo ha potuto contare su connivenze, complicità , sostegno e silenzio da parte della borghesia professionale. Non solo pezzi di istituzioni, non solo la politica, ma anche e soprattutto imprenditori, commercianti disposti a reinvestire, a riciclare, e ancora professionisti pronti a sostenere i desiderata degli uomini di rispetto: tramutarli in progetti, in atti legali, in rogiti, pronti a scrivere certificati medici compiacenti, e ancora giornalisti pronti a tacere o a regalare parole di ossequio, intellettuali distratti e pavidi, privi di ogni coscienza civile. Il tutto quasi mai per paura, per sudditanza alle minacce, bensì al mero scopo di arricchirsi, di acquisire potere in nome, in sintesi, del proprio personale tornaconto. I mafiosi catanesi erano, e sono dunque abituati così. Questo era, ed è, il “sistema Catania”, nel quale alla fine ci guadagnano tutti, in cui ognuno trova il proprio vantaggio immediato. Qualunque problema lo si risolve. Ognuno rispetta il proprio ruolo, segue le regole e non manca mai di rispetto. Soprattutto onora gli impegni. Per questo è un sistema pressoché perfetto, che dura nel tempo.
Se c'è da pagare, si paga, ma il risultato deve arrivare. Anche se a volte qualcosa va storto. Qualcuno gioca in modo scorretto.
Nella sentenza che manda all'ergastolo gli assassini di Serafino Famà emerge con forza come i mafiosi del clan Laudani intendessero questo rapporto. Pronti a pagare sull'unghia. Ma se il risultato non arrivava, altrettanto pronti a una reazione feroce ed immediata.
Era accaduto che l'avvocato Tommaso Bonfiglio, il legale di Giuseppe Di Giacomo, reggente della famiglia Laudani, avesse incassato “ secondo il racconto dei collaboratori di giustizia “ una grossa somma di denaro, garantendo a Di Giacomo la sicura scarcerazione. Di Giacomo aveva pagato senza fiatare ed aspettava la contropartita la scarcerazione non era però arrivata e il boss era rimasto dietro le sbarre. Ecco cosa si legge nella motivazione della sentenza della corte di Assise che ha condannato i responsabili dell'omicidio: <<Con specifico riferimento all'omicidio dell'Avv. Serafino Famà , il Giuffrida ha riferito che Di Giacomo Giuseppe, mentre si trovava detenuto presso il carcere di Firenze, per mezzo del cognato Di Mauro Matteo, aveva fatto pervenire a Giuffrida l'ordine di uccidere l'Avv. Tommaso Bonfiglio. Quest'ultimo era il difensore del Di Giacomo, al quale aveva fatto sborsare un'ingente somma di denaro (200-250 milioni di lire) promettendogli la scarcerazione, circostanza che però non si era verificata ( “gli ha fregato i soldi”)>>.
>>Gli ha fregato i soldi>>, appunto. Uno sgarro che la mafia punisce con la morte. Non c'è solo il danno economico, ma l'aggravante, per così dire, di avere preso in giro un capomafia di primo livello come Giuseppe Di Giacomo. Il pentito parla di 250 milioni di lire che dovevano servire a garantire al boss l'uscita dal carcere. Una somma importante, forse troppo importante per essere solo un onorario. E' dunque legittimo chiedersi: a cosa dovevano servire quei soldi? Attraverso quali canali doveva arrivare la scarcerazione del capo dei Laudani? Non è dato saperlo e l'avvocato Bonfiglio ha sempre negato di aver preso quel denaro. Sta di fatto che per lui era però scattata la condanna a morte. E non era la prima volta. Dell'avvocato Bonfiglio aveva parlato anche uno dei più importanti collaboratori di giustizia siciliani: Antonino Calderone aveva raccontato che Bonfiglio era stato condannato a morte da Nello Pernice, amico di Luciano Liggio, con il quale si sarebbe comportato in modo scorretto. L'avvocato, secondo il racconto Calderone, si era salvato proprio grazie a lui. Il boss catanese aveva negato la sua autorizzazione all'omicidio, nonostante anche con lui non si fosse comportato correttamente.
Bonfiglio evidentemente è un uomo fortunato e finisce per scamparla anche la seconda volta. Di Giacomo si rende conto che l'esecuzione dell'avvocato Bonfiglio è rischiosa e soprattutto capisce che i sospetti si concentrerebbero proprio su lui.
Ma il boss è arrabbiato, incazzato nero. A quel punto, non potendo colpire in quel momento Bonfiglio, il boss vuole trovare a qualsiasi costo un latro obiettivo su cui sfogare la rabbia che lo divora. Ce l'ha con gli avvocati che considera dei truffatori, si sente fregato da quegli azzeccagarbugli. Deve ammazzarne uno: qualcuno in un modo o nell'altro deve pagare per tutte le fregature che gli sono arrivate. Lo trova nell'avvocato Serafino Famà che ai suoi occhi era colpevole del fallimento della sua strategia difensiva. Che aveva fatto Famà ? Semplicemente gli interessi della persona che difendeva, ovvero il marito dell'amante del boss. Niente di più.
Nel processo che vedeva imputato Di Giacomo, l'avvocato Bonfiglio aveva chiamato a testimoniare l'amante di Di Giacomo. Era una teste a discolpa e, come si è detto, il capomafia contava molto sulla sua deposizione. Qualcuno glia aveva garantito che quella donna lo avrebbe scagionato dalle accuse, magari aggravando la posizione del marito, difeso proprio dall'avvocato Famà . Resosi conto che l'eventuale testimonianza della donna avrebbe aggravato la posizione del suo assistito, Famà , per evitare un danno al suo cliente, chiede e ottiene che la donna possa avvalersi della facoltà di non rispondere, e così Stella fa scena muta. La mancata testimonianza della donna era agli occhi di Di Giacomo la causa della sua condanna, e il responsabile per il boss era solo uno: l'avvocato Famà . Un altro maledetto avvocato che stavolta però poteva e doveva essere ammazzato.
Famà muore, dunque, perché si permette di difendere un suo cliente a rischio di scombinare i piani a un pezzo da novanta dello stesso clan. Muore perché, secondo la logica mafiosa, non conosceva il “giusto rispetto”.
LA GIORNATA DURA dell'avvocato
La sera del 9 novembre 1995 Serafino Famà esce dallo studio insieme a un collega. Sono circa le 21. Famà è stanco, è stata una giornata dura e vuole andare casa. Si avviano al parcheggio. Pochi passi poi qualcuno lo chiama. Una voce forte e chiara: <<Scusi¦.buonasera¦>>. L'avvocato accenna a voltarsi, ma non ne ha il tempo. Tre pallottole alla schiena. Ruota su se stesso e cade supino sul marciapiedi. Poi altri tre colpi che gli devastano il volto.
Non fanno neppure troppo rumore. I sicari hanno usato il silenziatore che avevano preparato per ammazzare Bonfiglio nel suo studio. Non hanno neanche fatto la fatica di smontarlo. Gli assassini risalgono in auto senza fretta e se ne vanno a bere tranquillamente un caffè.
Se questo fosse un film, la sequenza successiva, in viale Raffaello Sanzio, sarebbe al rallentatore e priva di audio, come certi sogni, certi incubi nei quali la voce dell'urlo che hai in gola non esce, resta stritolata dentro il terrore. Un uomo in mezzo alla carreggiata con le braccia spalancate che chiede disperatamente aiuto. Un'auto si ferma di sghembro. Un uomo e una donna scendono e poi gridano anch'essi davanti a quel corpo esamine. Poi tutto si sfoga.
Muore così Serafino Famà , ammazzato a pochi metri dal suo studio. Muore quasi sicuramente senza capire, senza neppure immaginare perché qualcuno gli sta strappando via la vita. Molti parlarono “ come sovente accade in casi del genere “ di una morte assurda. In realtà la fine di Famà non ha niente di assurdo. Per alcuni versi c'è un filo rosso che la unisce all'altro delitto eccellente consumato a Catania undici anni prima, il 5 gennaio 1984. il giornalista Giuseppe Fava muore anche lui per la sua diversità : per non essere compatibile con il sistema dell'informazione a Catania, per aver fatto quello che tanti suoi colleghi non facevano.
Famà è un avvocato, difende anche i mafiosi, ma lo fa in modo lineare. Non pastette, non scende a compromessi. La sua diversità , come quella di Fava, si evidenzia perché contrasta con l'omologazione di tanti altri in un sistema fondato sul compromesso. Si diventa scomodi perché tanti altri sono accomodanti, perché il comportamento di pochi risulta anomalo rispetto a quello di molti. Famà e Fava sono stati uccisi dalla mafia, ma anche da un sistema di potere che governa la città , un sistema mafioso che supera i confini della mafia militare. Di Giacomo e i suoi sicari hanno potuto agire perché la società civile, l'ambiente giudiziario, la classe dirigente non hanno fatto muro.
Eppure Serafino Famà non è mai entrato nella memoria della città . Lo ricordano ogni anno con una stanca cerimonia a Palazzo di Giustizia; gli hanno dedicato la Camera penale ed un'aula in Tribunale. La città , nonostante gli intoppi burocratici, ha avviato le procedure per intitolargli lo slargo dove la mafia lo ha ammazzato.
La sua figura non è di fatto considerata come una vittima eccellente dell'antimafia. A Catania il suo ricordo è stato sempre snobbato da chi ha la presunzione di essere depositario di tale azione: comitati, militari antimafia, semplicemente non ne parlano. Se lo scordano.
A quindici anni dal suo assassinio mafioso Serafino Famà subisce la conseguenza di essere un avvocato di uomini della mafia. Basta questo per considerarne la memoria con distacco, sufficienza, addirittura con sospetto. Non importa che ad ammazzarlo sia stata la mafia e che lo abbia fatto solo perché quest'avvocato era una persona perbene. Un'ingiustizia e una violenza postume che si sommano a quelle feroci della mafia.
A giugno ci sarà un matrimonio. Si sposa Flavia, la figlia di Serafino Famà . Questa giovane donna, cresciuta senza suo padre, pensiamo però che non si sentirà sola quel giorno. La memoria di suo padre le siederà accanto, l'accompagnerà nei suoi pensieri, nelle sue emozioni. Ce l'ha ricordato questo matrimonio giorni fa sul suo blog Nando Dalla Chiesa. Un fatto privatissimo, che – spiega Dalla Chiesa “ è una sconfitta per la mafia perché la ferocia non riesce ad ucciderla la vita, la speranza.
Per singolare coincidenza, nello spazio di pochi giorni si sposano altre due giovani donne che con Flavia condividono la medesima tragedia: Viviana Matrangola, la figlia di Renata Fonte, consigliere comunale di Nardò, uccisa perché si opponeva alle speculazioni e Margherita, la figlia di Barbara Asta e sorella di salvatore e Giuseppe, tutti uccisi dall'autobomba di Pizzolungo. Si sposano tre figlie cresciute senza padre o madre a causa della violenza mafiosa. Ed è come se volessero spiegarci che alla fine la mafia non vince sulle persone, che non riesce a spegnere quello che chi è morto ha seminato dentro di loro, che non riesce mai ad uccidere sino in fondo un “Giusto”, soprattutto non riesce ad ucciderne la memoria.
Pr questo, al termine di queste righe, unendoci alle parole di Dalla Chiesa, vogliamo di cuore fare gli auguri, senza retorica alcuna, a Flavia e alle altre.